Acidi grassi e salute: alla ricerca del giusto compromesso

acidi grassi - giovanna pitotti biologo nutrizionista

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Illustrazione di Gianluigi Marabotti.

Quale deve essere l’approccio dietetico agli acidi grassi, quanti se ne possono assumere e qual è la migliore combinazione tra di essi?

La relazione tra acidi grassi saturi e rischio cardiovascolare emerse dagli studi pionieristici degli anni cinquanta di Ancel Keys (The seven countries study) che dimostrarono come i livelli dei grassi animali assunti fossero un fattore di rischio aterogenico.

Inizialmente l’American Heart Associationindividuava in 1:1:1 il rapporto tra acidi grassi saturi (SFA — satured fatty acids), monoinsaturi (MUFA — monounsatured fatty acids) e polinsaturi (PUFA — polyunsatured fatty acids). Bilanciamento inquadrato come l’ideale per generare il miglior profilo lipoproteico e il miglior rapporto tra le frazioni LDL/HDL (indicatore per il rischio cardiovascolare). Molti studi hanno indicato che gli SFA generano un incremento del colesterolo totale e della frazione lipoproteica LDL mentre i PUFA (per esempio quelli della serie omega-3) hanno un effetto opposto. Per questo motivo, le indicazioni attuali dell’AHA consigliano un introito di SFA inferiore al 10% delle calorie totali ingerite.

All’interno dei grassi saturi esistono però delle differenze. L’acido stearico (C 18:0) ha un effetto neutro sul colesterolo ematico, l’acido laurico (C 12:0) e l’acido miristico (C 14:0), presenti soprattutto nel latte, nell’olio di cocco e nell’olio di palmisto, innalzano i livelli di LDL in modo importante. Considerando l’influenza sul profilo delle lipoproteine, l’acido palmitico (16:0) può considerarsi intermedio perché rimane neutrale se presente in una molecola di trigliceride insieme a catene di acidi grassi monoinsaturi, polinsaturi o acido stearico, mentre risulta particolarmente aterogenico se abbinato ad acido laurico o miristico.

Negli ultimi anni, per diverse tipologie di lavorazioni, l’industria alimentare ha sostituito gli acidi grassi saturi con gli acidi grassi trans (TFA — trans fatty acids). Questi ultimi — ottenuti attraverso l’idrogenazione di oli vegetali – sono risultati maggiormente dannosi in quanto capaci non solo di innalzare la frazione LDL, ma di diminuire quella HDL portando a un incremento esagerato del rapporto LDL/HDL che, come è risaputo, aumenta il rischio di incidenti cardiovascolari.

In conclusione, la raccomandazione generale è quella di evitare gli acidi grassi trans e non esagerare con i grassi saturi nell’alimentazione. Allo stesso tempo però i grassi saturi non devono essere aboliti totalmente per non squilibrare il rapporto LDL/HDL e per non portare alla possibile formazione di LDL più dense e aterogeniche. Quindi, seguendo le linee guida dell’American Heart Association (AHA) e del National Cholesterol Education Program (NCEP), condivise anche dai nostri LARN, la quota di lipidi assunti con l’alimentazione deve aggirarsi intorno al 30%, senza mai salire oltre il 40% o scendere al di sotto del 20%. Una giusta modalità di intervento è costituita da una scelta consapevole e moderata degli acidi grassi saturi naturalmente presenti nei cibi, la preferenza nei condimenti dell’olio extravergine di oliva e un aumento dell’introito di acidi grassi polinsaturi della famiglia omega-3 (presenti per esempio nel pesce azzurro e nei semi di lino), abitudini che mantengono bilanciato il rapporto SFA:MUFA:PUFA e generano il miglior profilo lipidico.

Dottoressa Giovanna Pitotti

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